Le Mille e Una Notte Storia delle Tre Sorelle.
Raccolta di novelle e fiabe della Letteratura Araba Le mille e una notte - Introduzione Le avventure del Califfo Harun Ar Rashid Storia del Barbiere e Storia del Primo Fratello Gobbo Storia del Fratello dalle Labbra Tagliate Storia del Medico Ebreo e la Storia del Giovane di Mossul Storia del Principe Ahmed e della Fata Pari Banu Storia del Principe Qamar Az Zaman Storia del Principe Zeyn Al-Asnam e del Re dei Geni Storia del Quarto Fratello Guercio e Storia del Quinto Fratello dalle orecchie tagliate Storia del Sarto e Storia del Giovane Zoppo Storia del Secondo Fratello Sdentato e Storia del Terzo Fratello Cieco Storia del Sovrintende e Storia dell'Invitato Storia della Principessa Giulnar La Marina Storia D'Ali Cogia Mercante di Bagdad Storia Dell'Uomo Addormentato Ridestato Storia di Aladino e Della Lampada Meravigliosa Storia di Ali Baba e dei Quaranta Ladroni Sterminati da una Schiava Storia di Ali Ibn Bakkar e di Shams An Nahar Storia di Badr Principe di Persia e della Principessa Giawara Figlia del Re As Samandal Storia di Codadad e dei suoi Fratelli Storia di Ghanim Lo Schiavo d'Amore Storia di Nur ed Din e della Bella Persiana Storia di Sindibad il marinaio Le mille e una notte Conclusione Guadagnare navigando! Acquisti prodotti e servizi. Guadagnare acquistando online. LE MILLE E UNA NOTTE - STORIA DELLE TRE SORELLEC'era un principe della Persia chiamato Khoshr Shah, che cominciando a conoscere il mondo, prendeva grande piacere nelle avventure notturne. Egli spesso si travestiva e, accompagnato da uno dei suoi ufficiali di fiducia, egualmente travestito, percorreva i quartieri della città, incappando in avventure eccezionali. Gliene capitò una straordinaria la prima volta che uscì travestito, pochi giorni dopo essere salito al trono al posto del sultano suo padre, che, morendo vecchissimo, gli aveva lasciato il regno della Persia in eredità. Dopo le cerimonie dell'incoronazione e dopo i funerali del sultano suo padre, il nuovo sultano, tanto per suo piacere, quanto per il dovere di conoscere personalmente ciò che accadeva nella sua capitale, uscì dal suo palazzo circa alle due di notte, accompagnato dal suo gran visir, travestito al pari di lui. Mentre si trovava in un quartiere in cui non vi era che popolino passando per una strada, sentì parlare ad alta voce, e avvicinatosi alla casa da cui venivano quei suoni, guardò da una fessura della porta, e scorse un lume e tre sorelle sedute sopra un sofà, che conversavano dopo cena. Dal discorso della maggiore comprese subito che chiacchieravano dei loro desideri. "Giacché parliamo di desideri", diceva, "il mio sarebbe di avere per marito il panettiere del sultano; in tal modo mangerei sempre quel pane delicato, che si chiama pane del sultano. Vediamo, sorelle, se il vostro gusto è buono quanto il mio." "Io", rispose la seconda sorella, "desidererei essere la moglie del capo cuoco del sultano: così mangerei squisiti intingoli, e, poiché sono persuasa che il pane del sultano è abbondante nel palazzo, non ne mancherei. Vedi, sorella", aggiunse rivolgendosi alla primogenita, "che il mio gusto val più del tuo." La sorella minore, ch'era d'una bellezza sorprendente e che aveva più grazia e più spirito delle prime due, parlò a sua volta: "Per me, sorelle mie, io non limito i miei desideri a così poca cosa: ma faccio un voto più grande e poiché si tratta di desideri desidero essere la sposa del sultano. Lo renderei padre di un principe con i capelli da una parte d'oro e dall'altra d'argento; le lacrime che gli cadrebbero dagli occhi sarebbero perle, e nel sorriso le sue labbra vermiglie sembrerebbero un bottone di rosa allorché sboccia". I desideri delle tre sorelle, e particolarmente quello della minore, sembrarono così singolari al sultano Khoshr Shah, che decise di accontentarle e, senza dir nulla di questo suo proposito al gran visir, lo incaricò di osservare bene quella casa, per andare a prendere tutte e tre le sorelle il giorno successivo e condurgliele. Il gran visir, eseguendo l'ordine del sultano, il giorno seguente, dette alle tre sorelle solo il tempo di vestirsi prontamente per comparire alla sua presenza, senza dir loro altro, se non che il sovrano voleva vederle.Egli le condusse al palazzo, e quando le ebbe presentate al sultano, questi domandò: "Ditemi, vi ricordate dei desideri che formulaste ieri sera quando eravate così di buon umore? Non mentite, perché voglio conoscerli". A queste parole del sultano, le tre sorelle, che non se l'aspettavano, furono prese da grande confusione. Esse abbassarono gli occhi, arrossirono e a quel rossore maggiormente risultarono le grazie della minore, che finì così di conquistare il cuore del sultano. Siccome per pudore e per timore di aver offeso il sultano col loro colloquio, esse tacevano, questi, che se n'avvide, disse per rassicurarle: "Non temete; io non vi ho fatte venire qui per punirvi, e poiché vedo che la domanda che vi ho fatto vi spaventa, contro la mia intenzione, e poiché so qual è il desiderio di ciascuna di voi voglio accontentarvi. Voi", soggiunse, "che desiderate avermi per sposo, sarete soddisfatta oggi stesso, e quanto a voi", continuò rivolgendosi alla prima e alla seconda sorella, "vi do ugualmente in matrimonio al mio panettiere e al capo cuoco". Appena il sultano ebbe dichiarata la sua volontà, la minore, dando l'esempio alle sorelle maggiori, si prostrò ai suoi piedi per mostrare la sua riconoscenza. "Sire", disse, "il mio desiderio, giacché è noto alla maestà vostra, è stato formulato solo per gioco; io non sono degna dell'onore ch'ella mi fa, e le domando perdono del mio ardire." Le due sorelle maggiori vollero scusarsi egualmente, ma il sultano, interrompendole, disse: "No, no, sarà come avete detto e il desiderio di ciascuna di voi sarà esaudito". Le nozze delle tre sorelle furono celebrate lo stesso giorno come il sultano Khoshr Shah aveva deciso, ma con una gran differenza. Quelle della minore furono celebrate con lusso e allegrezza come conveniva al matrimonio di un sultano e di una sultana di Persia, mentre quelle delle due sorelle furono celebrate solamente con lo splendore che ci si poteva aspettare dalla classe sociale dei loro sposi, cioè del primo panettiere e del capo cuoco del sultano. Le due sorelle sentirono profondamente questa differenza. Così invece di essere contente della fortuna che era capitata loro con l'avverarsi del loro sogno, si abbandonarono alla gelosia, che non solo turbò la loro gioia, ma causò anche dolori, umiliazioni e afflizioni alla sorella minore. Non ebbero tempo di comunicarsi le loro impressioni sulla preferenza del sultano, che pareva loro offensiva. Ma, dopo il loro matrimonio, quando si incontrarono al bagno, dove si erano date appuntamento: "Ebbene! sorella mia", disse la prima sorella alla seconda, "che ne dici della nostra minore? Non è un bel soggetto per essere sultana?". "Confesso", disse l'altra sorella, "che non ci capisco nulla: non comprendo che cosa il sultano abbia trovato in lei per lasciarsi abbagliare così. Non è che una marmotta e tu sai in che stato l'abbiamo vista tu ed io. Solamente tu eri degna della mano del sultano ed egli doveva farti giustizia e preferirti a lei." "Sorella mia", riprese la maggiore, "non parliamo di me; io non avrei nulla da ridire se il sultano avesse scelto te: ma egli ha presa quella schifosa, e questo mi affligge: me ne vendicherei se potessi, e tu sei interessata in quest'affare al pari di me. E perciò ti prego di unirti a me per allearci in questa causa che c'interessa entrambe. Tu mi comunicherai i mezzi che credi più opportuni per mortificarla, e io ti prometto di metterti a parte di quelli che troverò per il mio grandissimo desiderio di umiliarla." Dopo questa congiura le due sorelle si videro spesso, e ogni volta parlavano degli espedienti da adottare per contrariare la sorella e anche per distruggerne la felicità. Esse ne idearono molti: ma discutendone l'esecuzione vi trovavano difficoltà così gravi che non ardivano servirsene. Intanto le facevano visita insieme, e simulando abilmente, le manifestavano amicizia per persuaderla quanto fossero contente d'avere una sorella sultana. Da parte sua la sultana le riceveva sempre con tutte le dimostrazioni di stima e di considerazione, non essendo montata in superbia per la sua dignità e non cessando di amarle con la stessa cordialità di prima. Alcuni mesi dopo il suo matrimonio, la sultana si trovò incinta; il sultano ne dimostrò una gran gioia, e questa gioia, dopo essersi diffusa nel palazzo e nella corte, si sparse in tutti i quartieri della capitale della Persia. Le due sorelle vennero a complimentarsi con lei e, parlandole della levatrice di cui avrebbe avuto bisogno per assisterla nel parto, la pregarono di scegliere una di loro. La sultana disse loro cortesemente: "Sorelle mie, io non domanderei di meglio, come potete ben immaginare, se la scelta dipendesse da me; io vi sono infinitamente riconoscente per la vostra buona volontà: ma non posso non sottomettermi a quello che il sultano ordinerà. Però fate in maniera che i vostri mariti impegnino i loro amici per far domandare questa grazia al mio signore". I due mariti, ognuno per conto proprio, supplicarono i cortigiani loro protettori, di procurare alle loro mogli l'onore cui aspiravano; questi protettori si adoperarono così efficacemente, che il sultano promise di appagare il desiderio espresso dalle sorelle di sua moglie. Esse ne furono felici perché finalmente avrebbero avuto occasione di vendicarsi. L'ora del parto arrivò, e la sultana si sgravò felicemente d'un principe, bello come il sole. Ma la sua bellezza non commosse e intenerì il cuore delle crudeli sorelle. Esse l'avvolsero in pannolini, lo posero in un piccolo canestro e lo lasciarono in balìa della corrente d'un canale che passava sotto l'appartamento della sultana, mettendo al suo posto un piccolo cane morto, e asserendo che la sultana si era sgravata di quello. Questa spiacevole notizia fu annunciata al sultano; egli tanto se ne adirò che avrebbe mandato a morte la sultana, se il gran visir non gli avesse fatto considerare che non si poteva, senza fare ingiustizia, considerarla responsabile delle bizzarrie della natura. Il canestro, nel quale il piccolo principe era stato posto, fu trasportato nel canale fuori dal muro che cingeva l'appartamento della sultana, impedendone la vista, e continuò passando attraverso il giardino del palazzo. Per puro caso l'intendente dei giardini, che era uno dei funzionari più ragguardevoli del regno, passeggiava appunto lungo il canale. Quando scorse il canestro che galleggiava, chiamò un giardiniere, e, mostrandoglielo, gli disse: "Va in fretta, e portami quel canestro perché veda che cosa c'è dentro". Il giardiniere andò e lo prese abilmente, quindi lo portò dall'intendente. Questi fu estremamente sorpreso nel vedere un bambino nel canestro, e che, sebbene fosse appena nato, pure era di straordinaria bellezza. Da molto tempo l'intendente era sposato, ma, malgrado il suo grandissimo desiderio di aver figli, il cielo non aveva ancora esauditi i suoi voti. Così, interrompendo la passeggiata, si fece seguire dal giardiniere col canestro del fanciullo, e quando arrivò a casa sua, che aveva l'ingresso nel giardino del palazzo, entrò nell'appartamento di sua moglie, dicendole: "Moglie mia, noi non abbiamo figli: eccone uno! Io te lo raccomando; fa subito cercare una nutrice e prenditene cura, come se fosse nostro figlio; lo riconosco per tale da questo momento". La moglie prese il fanciullo con gioia, e si fece un gran piacere d'incaricarsene. L'intendente dei giardini non volle far ricerche per sapere da dove potesse venire il fanciullo, pensando fra sé: "Certo è venuto dall'appartamento della sultana: ma non tocca a me scoprire quel che vi avviene, né causare turbamento in un luogo dove la pace è tanto necessaria". L'anno seguente la sultana si sgravò d'un altro principe. Le sue snaturate sorelle, senza averne maggior compassione, lo misero ugualmente in un canestro sul canale, dicendo che la sultana aveva partorito un gatto! Per buona fortuna del bambino, l'intendente dei giardini, trovandosi vicino al canale, lo fece prendere e portare a sua moglie. Il sultano della Persia si adirò per questo parto ancor più che per il primo, e avrebbe fatto provare il suo risentimento, se le rimostranze del gran visir non fossero ancora riuscite a calmarlo. Finalmente la sultana si sgravò ancora e questa volta, non di un principe ma d'una principessa; l'innocente bambina però ebbe la stessa sorte dei principi suoi fratelli. Le due sorelle, che avevano deciso di continuare nella loro odiosa impresa, finché non avessero visto la sultana loro sorella disprezzata, cacciata e umiliata, la trattarono allo stesso modo, affidandola all'acqua del canale. La principessa fu soccorsa e strappata alla morte dalla compassione e dalla carità dell'intendente dei giardini, come già lo erano stati i due principi suoi fratelli, con i quali fu nutrita ed educata. Alla crudeltà le due sorelle aggiunsero l'impostura, come nelle altre volte. Esse mostrarono un pezzo di legno, assicurando a gran voce che la sultana si era sgravata di quello. Il sultano Khoshr Shah non poté contenersi quando seppe questo nuovo parto. "Che?", disse. "Questa donna, indegna del mio affetto, riempirebbe il mio palazzo di mostri se la lasciassi vivere! Ma ciò non avverrà; se ella è un mostro, io voglio liberarne il mondo!" Pronunciata questa sentenza di morte, comandò al gran visir di farla eseguire. Questi e i cortigiani che erano presenti si prostrarono ai piedi del sultano per supplicarlo di revocare la sentenza. Ma il gran visir parlò così: "Sire, la maestà vostra mi permetta di dimostrarle che le leggi che condannano a morte, sono state stabilite allo scopo di punire i delitti. I tre parti inaspettati della sultana non sono tali. Che colpa può averne lei? Una infinità di altre donne hanno disgrazie simili, e ne hanno tutti i giorni: esse sono da compiangere, non da punire. La maestà vostra può allontanarla, ma almeno la lasci vivere. L'afflizione con cui continuerà a vivere dopo la perdita delle vostre grazie, sarà per lei un supplizio più forte della morte stessa". Il sultano della Persia rientrò in sé e disse: "Che viva, giacché le cose stanno così. Io le concedo la vita, ma a una condizione, che le farà desiderare la morte più volte al giorno: si costruisca per lei uno stanzino di legno alla porta della principale moschea, con una finestra sempre aperta; la si rinchiuda là, con una veste grossolana e ogni musulmano, che andrà alla moschea a fare la sua preghiera le sputi sul viso; se qualcuno manca, voglio sia esposto allo stesso castigo. A voi, visir, comando di mettere dei sorveglianti che vigilino perché i miei ordini siano fedelmente eseguiti". Il tono con cui il sultano aveva pronunciato quest'ultimo decreto chiuse la bocca al gran visir. Il suo comando fu eseguito con grandissimo piacere delle due sorelle invidiose. La cameretta fu terminata e la sultana, veramente degna di compassione, vi fu rinchiusa, appena poté lasciare il letto dopo il parto, secondo gli ordini del sultano; fu esposta ignominiosamente alle risa ed al disprezzo di un popolo intero e sopportò tale trattamento con tanto coraggio da suscitare l'ammirazione e nel medesimo tempo la compassione in tutti. Intanto i due principi e la principessa erano nutriti ed educati dall'intendente dei giardini e da sua moglie con tenerezza da padre e da madre, e questa tenerezza aumentò a misura che crescevano in età, per la nobiltà che traspariva tanto nella principessa quanto nei suoi fratelli e soprattutto per la gran bellezza della principessa. Appena i due principi furono giunti all'età adatta, l'intendente dei giardini diede loro un maestro perché imparassero a leggere e scrivere, e la principessa loro sorella, che assisteva alle lezioni, mostrò un desiderio così vivo d'imparare a leggere e a scrivere, che l'intendente, meravigliato di questa disposizione, le diede lo stesso maestro. Spronata dallo spirito di emulazione, ella, con la sua vivacità e con l'acume, divenne in poco tempo brava quanto i principi suoi. Da allora ebbero gli stessi maestri anche nelle altre materie, nella geografia, nella poesia, nella storia e nelle scienze, anche occulte; e poiché non vi trovavano nulla di difficile, fecero progressi così meravigliosi che i maestri ne erano stupefatti: e tosto essi confessarono, apertamente, che, se avessero continuato così, sarebbero diventati in breve più dotti di loro. Nelle ore di ricreazione la principessa imparò anche a cantare e a suonare parecchi strumenti. Quando i principi impararono a cavalcare, ella, non volendo che i fratelli avessero questo vantaggio su di lei, imparò con loro, di modo che sapeva montare a cavallo, cavalcare, tendere l'arco, lanciare il giavellotto, con tanta destrezza quanto loro, e spesso anzi li superava nella corsa. L'intendente era al colmo della felicità nel vedere che i fanciulli da lui allevati, erano perfetti nel corpo e nelle doti dello spirito e avevano corrisposto alle spese sostenute per la loro educazione ben oltre quello che ci si poteva aspettare e fece un'altra spesa importante, a loro vantaggio. Fino allora, contento della sua abitazione nel giardino del palazzo, aveva vissuto senza villa in campagna. Ne comprò una poco distante dalla città, con grandi dipendenze di terre coltivabili, prati e boschi: e poiché la casa non gli parve abbastanza bella né comoda, la fece demolire e riedificare, non risparmiando niente per renderla la più elegante e sontuosa dei dintorni. Egli vi andava tutti i giorni per sollecitare con la sua presenza il gran numero di operai che vi lavoravano, e appena un appartamento fu finito, pronto per riceverlo, vi andò a passare parecchi giorni di seguito per quanto glielo permettevano le funzioni e i doveri della sua carica. Con la sua assistenza la casa fu finalmente terminata; e mentre l'abbellivano con un arredamento corrispondente al lusso dell'edificio, fece lavorare il giardino sul disegno tracciato da lui e secondo quanto si faceva in Persia fra i grandi signori. Vi aggiunse poi un bosco di vasta estensione, cinto da mura e riempito d'ogni sorta di bestie selvagge, in modo che i principi e la principessa vi potessero andare a caccia, quando ne avessero avuto voglia. Quando la villa fu finita e in condizioni di essere abitata, l'intendente dei giardini andò a prostrarsi ai piedi del sultano, e dopo avergli ricordato da quanto tempo lo serviva, gli illustrò lo stato di vecchiaia in cui si trovava e lo supplicò di accogliere le sue dimissioni dalla carica. Il sultano gli accordò questa grazia con molto piacere, perché era molto soddisfatto dei suoi servigi, tanto sotto il sultano suo padre, quanto sotto di lui, e accordandogliela, domandò che cosa potesse fare per ricompensarlo. "Sire", rispose l'intendente, "io fui colmato di benefici sia dalla maestà vostra come dal sultano vostro padre, di felice memoria, e non mi resta altro da desiderare che di morire nella vostra buona grazia!" Egli prese congedo dal sultano, e se ne andò alla villa insieme ai due principi Bahman e Perviz e alla principessa Parizade. Quanto a sua moglie ella era morta da qualche anno. Egli visse là cinque o sei mesi, poi fu colpito da una morte improvvisa, che non gli diede il tempo di dir loro la verità sulla loro nascita, come aveva deciso di fare per obbligarli a continuare a vivere nel modo in cui erano vissuti fino allora, secondo il loro stato e la loro condizione, conforme all'educazione che aveva data loro e al loro carattere. I principi Bahman e Perviz e la principessa Parizade, che non conoscevano altro padre che l'intendente dei giardini, lo rispettarono come tale, e gli resero tutti i doveri funebri che l'amore e la riconoscenza filiale esigevano da loro. Contenti dei grandi beni che egli aveva lasciato loro, continuarono a vivere insieme nella stessa concordia in cui avevano fino allora vissuto, senza ambizione di recarsi a corte per ottenere le prime cariche e dignità, come sarebbe stato loro facile. Un giorno in cui i due principi erano a caccia e che la principessa Parizade era rimasta in casa, una devota musulmana, vecchissima, si presentò alla porta e chiese che le dessero il permesso di entrare per fare la sua preghiera. La principessa ordinò che la si facesse entrare e che le si mostrasse l'oratorio, che l'intendente aveva avuto cura di far costruire nella villa in mancanza di moschee nel vicinato. Comandò anche che, quando la devota avesse fatto la sua preghiera, le facessero vedere la casa ed il giardino, e che dopo la conducessero alla sua presenza. Ella fu finalmente condotta davanti alla principessa, che l'aspettava in un gran salone, superiore per bellezza e ricchezza a tutto quello che aveva ammirato negli altri appartamenti. La principessa quando la vide entrare: "Mia buona madre", le disse, "avvicinatevi e venitevi a sedere vicino a me; io sono lieta della fortuna che mi permette per qualche istante di profittare del buon esempio e della conversazione d'una persona come voi, che ha preso la buona strada dandosi a Dio, e che dovrebbe essere imitata". La devota voleva sedersi a terra, ma la principessa non lo permise e, alzatasi dal suo posto, avanzò verso di lei, la prese per mano e l'obbligò a sedersi al posto d'onore. La devota, commossa da questa cortesia: "Signora", disse, "non sono degna di essere trattata con tanti onori, e vi obbedisco soltanto perché me lo comandate e perché siete padrona in casa vostra!". Quando fu seduta, prima che cominciasse a parlare, una delle schiave della principessa portò una piccola tavola bassa, intarsiata di madreperla ed ebano con un bacino di porcellana pieno di focacce, di molti piatti di frutta di stagione, e di confetture. La principessa prese una focaccia e, offrendola alla devota, "Mia buona madre", disse, "prendete, mangiate e scegliete le frutta che più vi piacciono". "Signora", rispose la devota, "non sono abituata a mangiare cibi così delicati, e ne mangio, solo per non rifiutare quello che Iddio mi manda da una mano generosa come la vostra." Mentre la devota mangiava, la principessa fece lo stesso, per invogliarla col suo esempio, rivolgendole varie domande sugli esercizi di devozione che praticava e sul suo modo di vivere. Ella rispose con molta modestia, e di discorso in discorso la principessa venne a domandarle quello che pensava della sua casa, e se la trovasse di suo gusto. "Signora", rispose la devota, "dovrei essere di cattivissimo gusto per trovarvi a ridire: essa è bella, amena, arredata magnificamente molto ben disposta, e tutto vi è disposto in modo mirabile. Quanto alla posizione, essa è in un luogo piacevole, e non si può immaginare un giardino che sia più gradito alla vista di quello da cui è circondata. Se mi permettete nondimeno di non celarvi nulla, mi prendo la libertà di dirvi, signora, che la casa sarebbe incomparabile se vi fossero tre cose, che secondo me vi mancano." "Mia buona donna", riprese la principessa Parizade, "quali sono queste tre cose? Ditemele, ve ne scongiuro in nome di Dio: non risparmierò nulla per acquistarle, se è possibile." "Signora", rispose la devota, "la prima di queste tre cose è l'uccello che parla: è un uccello singolare che si chiama Bulbulhezar, ed ha anche la proprietà di attirare tutti gli uccelli che cantano, che vengono ad accompagnare la sua voce. La seconda è l'albero che canta, le cui foglie sono tante bocche che producono un concerto armonioso di voci differenti. La terza cosa finalmente è l'acqua gialla, color dell'oro; se ne versate una sola goccia in un bacino preparato espressamente essa sgorga così abbondantemente che riempie la vasca e poi si eleva in uno zampillo che non cessa mai d'innalzarsi e di ricadere nel bacino senza che trabocchi." "Ah! Mia buona madre", esclamò la principessa, "quanto vi sono grata di avermi parlato dell'esistenza di queste tre cose! Esse sono sorprendenti, ed io non sapevo che vi fossero al mondo cose così curiose e mirabili! Sono persuasissima che voi non ignoriate il luogo ove si trovano e desidero che mi facciate la grazia di indicarmelo." Per dare soddisfazione alla principessa, la buona devota disse: "Signora, mi renderei indegna di voi se rifiutassi di appagare la vostra curiosità. Ho dunque l'onore di dirvi che le tre cose di cui vi ho parlato si trovano in un medesimo luogo, ai confini di questo regno, dalla parte delle Indie. Il cammino che vi conduce passa davanti alla vostra casa: e colui che intraprenderà questo viaggio non deve far altro che seguirlo per venti giorni, alla fine dei quali domanderà dove sono l'uccello che parla, l'albero che canta e l'acqua gialla: il primo cui si rivolgerà glielo indicherà subito". Dette queste parole, si alzò: e dopo aver preso congedo, se ne andò per il suo cammino. La principessa Parizade aveva l'animo così occupato a ricordare quanto la devota musulmana le aveva detto dell'uccello che parlava, dell'albero che cantava e dell'acqua gialla, che si avvide che se ne era andata solo quando volle farle alcune domande, per averne maggiori chiarimenti. Le sembrava che quel che aveva inteso dalla sua bocca non fosse sufficiente per intraprendere un simile viaggio. Nondimeno non volle mandare nessuno a richiamarla e fece uno sforzo per tenere a mente tutto ciò che aveva udito, senza dimenticare nulla. Quando fu convinta che nulla le era sfuggito, si mise a pensare alla soddisfazione di riuscire a possedere cose tanto meravigliose: ma le difficoltà che vi trovava e il timore di non riuscirvi la rattristavano molto. La principessa Parizade era così immersa in questi pensieri, che i principi suoi fratelli, arrivati dalla caccia ed entrati nel salotto, invece di trovarla allegra, secondo il solito, furono sorpresi di vederla pensierosa e come afflitta, con la testa china, come se non si fosse accorta della loro presenza. Il principe Bahman ruppe il silenzio, dicendo: "Sorella mia, dove sono la gioia e l'allegria che ti sono solite? Sei forse indisposta? Ti è accaduta qualche disgrazia? Ti hanno dato qualche dispiacere? Diccelo, perché possiamo vendicarti se qualcuno ha avuta la temerità di offendere una persona come te, alla quale è dovuto ogni rispetto". La principessa Parizade stette qualche tempo senza rispondere e nella stessa posizione. Finalmente alzò gli occhi, guardò i principi suoi fratelli, e li abbassò nuovamente, dopo aver loro detto che non aveva niente. "Sorella mia", riprese il principe Bahman, "tu ci nascondi la verità, poiché qualche cosa deve esserti successa, e qualche cosa di grave. Non è possibile che nel poco tempo che siamo stati lontani, un cambiamento così grande e repentino quanto quello che osserviamo in te, sia accaduto per nulla. Vedi bene che noi non siamo soddisfatti da simile risposta. Non ci nascondere dunque quello che è avvenuto, a meno che tu non voglia farci credere che non hai fiducia nell'amicizia ferma e costante che sempre c'è stata fra noi fino ad oggi dalla nostra più tenera età." La principessa, che era ben lontana dal volere essere in discordia con i principi suoi fratelli, non volle lasciarli in questo pensiero. "Se vi ho detto", rispose, "che non era nulla, l'ho detto per amor vostro, ma poiché me lo chiedete in nome della nostra amicizia e della nostra unione, che mi sono care, ve lo dirò. Noi abbiamo sempre creduto che questa casa edificata dal nostro defunto genitore fosse perfetta in tutto, e che non vi mancasse nulla. Oggi però ho saputo che vi mancano tre cose, che la renderebbero superiore e incomparabile rispetto a tutte le case che esistono al mondo. Queste cose sono l'uccello che parla, l'albero che canta e l'acqua color dell'oro." Dopo aver spiegato in che consisteva l'eccellenza di queste tre cose: "Una devota musulmana", soggiunse, "mi ha fatto fare questa osservazione, e mi ha insegnato il luogo dove sono e la strada per giungervi. Voi troverete forse che è cosa di poca importanza che la nostra casa sia perfetta, e che è comunque sempre bellissima, indipendentemente da queste ricchezze, così come è ora e che quindi ne possiamo fare a meno. Voi penserete quello che vi piacerà, ma io non posso fare a meno di mostrarvi che sono persuasa che esse sono necessarie, e non sarò contenta se non quando le avrò". "Sorella mia", rispose il principe Bahman, "nulla può avere importanza per te senza averne anche per noi. Basta il tuo desiderio di acquistare le cose che dici, per obbligarci a prendervi lo stesso interesse. M'incarico di andarne in cerca; dimmi il cammino che debbo fare e il luogo dove si trovano, e partirò domani stesso." "Fratello mio", disse il principe Perviz, "non conviene che ti allontani dalla casa, poiché ne sei il capo e il sostegno; prego quindi la nostra sorella di unirsi a me per pregarti di abbandonare il tuo proposito, e di permettere che intraprenda io il viaggio. Farò bene quanto te e sarà meglio così." "Fratello", rispose il principe Bahman, "sono persuaso della tua buona volontà, e certamente riusciresti bene quanto me in questo viaggio, ma lo voglio fare io. Tu resterai con nostra sorella, e non occorre che te la raccomandi." Egli passò il resto della giornata a fare tutti i preparativi per il viaggio ed a farsi bene istruire dalla principessa sulle indicazioni che la devota le aveva dato per non sbagliare il cammino. Il giorno seguente per tempo il principe Bahman montò a cavallo, e il principe Perviz e la principessa Parizade che avevano voluto assistere alla sua partenza, l'abbracciarono, augurandogli un felice viaggio. Ma durante questi addii, la principessa si ricordò di una cosa che fino a quel momento non le era venuta in mente. "Fratello mio", gli disse, "io non avevo pensato ai pericoli cui potresti essere esposto nel viaggio. Chissà se ti rivedrò ancora? Discendi da cavallo, te ne scongiuro, e abbandona il pensiero del viaggio. Preferisco rinunciare all'uccello che parla, all'albero che canta, e all'acqua gialla, piuttosto di correre il rischio di perderti per sempre!" "Sorella", rispose il principe Bahman sorridendo del subitaneo timore della principessa Parizade, "la mia decisione è ormai definitiva, e, quando anche non lo fosse, la prenderei ora, e tu permetterai che io faccia ciò che ho deciso. Gli incidenti di cui parli accadono solo agli sfortunati. E' vero che posso essere nel numero di questi: ma posso pure essere tra i fortunati che sono ancora più numerosi. Ma per ogni evenienza e poiché posso soccombere, quello che posso fare è di lasciarti questo coltello di cui ti faccio dono." Allora il principe Bahman estrasse un coltello, e porgendolo nel suo fodero alla principessa Parizade sua sorella, le disse: "Prendilo, e datti di tanto in tanto la pena di levarlo dalla sua guaina; finché lo vedrai pulito, come è ora, sarà segno che sono vivo: ma se vedrai che vi sono delle gocce di sangue, sta certa che non sono più in vita, ed accompagna la mia morte con le tue preghiere!". La principessa Parizade non poté ottenere altro dal principe Bahman, che, dopo aver detto addio a lei ed al principe Perviz per l'ultima volta, partì con un buon cavallo, ben armato e bene equipaggiato. Si mise in cammino e senza volgere né a destra né a sinistra continuò attraverso la Persia. Il ventesimo giorno del suo viaggio, vide un vecchio, orrido a guardarsi, che se ne stava sotto un albero a qualche distanza da una capanna che gli serviva da asilo contro le ingiurie del tempo. Le sopracciglia erano bianche come la neve, e ugualmente bianchi erano i capelli, i baffi e la barba; le sopracciglia gli arrivavano fino al naso; i baffi gli coprivano la bocca, e la barba e i capelli gli cadevano fin quasi ai piedi. Aveva le unghie delle mani e dei piedi di una lunghezza straordinaria, e portava una specie di cappello piatto e molto largo che gli copriva il capo a guisa di ombrello, e per abito indossava una stuoia di paglia, nella quale stava avvolto. Questo buon vecchio era un monaco, il quale si era ritirato dal mondo da molti anni per dedicarsi unicamente a Dio, di maniera che alla fine si era ridotto come lo abbiamo descritto. Il principe Bahman, che fin dalla mattina era stato attento a guardare se incontrava qualcuno dal quale informarsi del luogo in cui doveva andare, si fermò quando fu giunto vicino al monaco, essendo questi la prima persona che incontrava, e discese da cavallo per adempiere a quanto la devota aveva detto alla principessa Parizade. Tenendo il cavallo per la briglia, avanzò verso il monaco, e, salutando, gli disse: "Buon padre, il cielo prolunghi i vostri giorni ed esaudisca i vostri desideri". Il monaco rispose al saluto del principe ma in termini così poco comprensibili che questi non capì neppure una parola. Il principe comprese che ciò derivava dai baffi che coprivano la bocca del derviscio, e non volendo passare oltre senza avere da lui le istruzioni di cui aveva bisogno, prese le forbici, di cui era provvisto, e, dopo aver legato il suo cavallo ad un ramo dell'albero, disse: "Buon monaco, io debbo parlarvi, ma i vostri baffi mi impediscono di comprendervi; permettete dunque, ve ne prego, che ve li accomodi e così le sopracciglia, che vi fanno assomigliare più a un orso che a un uomo". Il monaco, senza opporsi al principe, lo lasciò fare: ed egli, quando ebbe terminato, vide che il monaco aveva la carnagione fresca e pareva meno vecchio di quanto non sembrasse prima. Allora gli disse: "Se avessi uno specchio vi farei vedere quanto siete ringiovanito; ora siete un uomo, mentre prima nessuno avrebbe potuto distinguere quello che eravate". Le lodi del principe Bahman gli attirarono da parte del derviscio un sorriso e un complimento. "Signore", disse, "chiunque voi siate vi sono infinitamente grato per la cortesia che avete voluto rendermi, e son pronto a dimostrarvi la mia riconoscenza. Certamente non siete disceso da cavallo senza esservi costretto dalla necessità; perciò ditemi di che cosa avete bisogno, e io, se posso, procurerò di accontentarvi." "Buon monaco", riprese Bahman, "io vengo da lontano e cerco l'uccello che parla, l'albero che canta e l'acqua gialla. So che queste tre cose sono in qualche luogo qui vicino, ma ignoro dove siano precisamente. Se voi lo sapete, vi scongiuro d'insegnarmi la strada, per non aver compiuto un lungo viaggio invano." Il principe osservò che, mentre parlava, il monaco cambiava d'aspetto, abbassava gli occhi e si faceva serio, e invece di rispondere, rimaneva in silenzio: il che l'obbligò a soggiungere: "Buon padre, mi pare che mi abbiate udito. Insegnatemi, se lo sapete, ciò che vi chiedo; o se non lo sapete, ditemelo affinché non perda tempo e me ne informi altrove". Il monaco, rompendo finalmente il silenzio, rispose: "Signore, la strada che mi domandate mi è nota, ma l'amore che ho per voi dacché vi ho visto e che è aumentato per il servizio che mi avete reso, mi lascia irresoluto se debba o no accordarvi la soddisfazione che chiedete". "Quale ragione può impedirvelo?", replicò il principe. "E quale difficoltà trovate a concedermela?" "Ve lo dirò", soggiunse il monaco, "il fatto è che il pericolo cui vi esponete è maggiore di quello che possiate credere. Altri signori, che non avevano né minore ardire, né minor coraggio di quello che possiate avere voi, sono passati di qui e mi hanno fatto la stessa domanda. Benché non avessi trascurato nulla per distoglierli, non hanno voluto credermi. A malincuore ho insegnata loro la strada, arrendendomi alle loro insistenze e posso assicurarvi che sono morti tutti, poiché non ne ho rivisto neppure uno. Se dunque amate la vita e volete seguire il mio consiglio, non proseguite oltre e ritornate alla vostra casa." "Credo", disse il principe, "che il vostro consiglio sia sincero, e vi sono grato della prova di amicizia che mi date. Ma qualunque sia il pericolo di cui mi parlate, nulla può farmi cambiare idea. Chiunque mi assalga, sono ben armato, né sarà più valoroso, o più prode di me." "E se quelli che vi assaliranno", interruppe il monaco, "non si faranno vedere (e sono molti) come vi difenderete contro i nemici invisibili?" "Non importa", riprese il principe, "per quanto possiate dire, non mi persuaderete mai a non adempiere al mio dovere. Giacché sapete la strada che vi domando, vi scongiuro per l'ultima volta d'insegnarmela e di non rifiutarmi questa grazia." Quando il monaco vide che nulla poteva far cambiare idea al principe Bahman, che si era ostinato nella decisione di continuare il viaggio, nonostante i salutari consigli che gli dava, egli pose la mano in un sacco che aveva vicino a sé e ne trasse una palla che gli consegnò dicendogli: "Giacché non posso ottenere che diate ascolto e che profittiate dei miei consigli, prendete questa palla e quando sarete a cavallo gettatela davanti a voi e seguitela fino alle falde di una montagna, dove si fermerà. Allora smontate da cavallo, lasciandolo con la briglia sul collo, e state certo che rimarrà nel medesimo posto ad aspettare il vostro ritorno. Salendo, vedrete a destra e a sinistra una quantità di grosse pietre nere, e sentirete una confusione di voci da ogni parte, che vi diranno mille ingiurie per intimorirvi, e per impedirvi di salire fino alla cima. Ma badate di non spaventarvi e sopra ogni altra cosa di non voltarvi indietro, perché se lo faceste sareste istantaneamente trasformato in una pietra nera, simile a quelle che vedrete, e che sono signori al pari di voi, che non sono riusciti nella loro impresa, come io vi dicevo. Se eviterete il gran pericolo ed arriverete alla cima della montagna, troverete lassù una gabbia, ed in questa l'uccello che cercate. Siccome esso parla, domanderete a lui dove sono l'albero che canta e l'acqua gialla, ed esso ve l'insegnerà. Non ho niente altro da dirvi; ecco quello che dovrete fare e quello che dovrete evitare: ma se mi date ascolto, seguirete il consiglio che vi ho dato e non vi esporrete alla perdita della vostra vita. Ancora una volta, mentre avete tempo per pensarci, considerate che questa perdita è irreparabile ed è legata a una condizione alla quale si può disubbidire, anche per inavvertenza, come potete ben capire". "Per quanto riguarda il consiglio che mi avete dato e per cui vi sono grato", rispose il principe Bahman dopo aver ricevuta la palla, "non posso seguirlo, ma cercherò di profittarne di non guardarmi alle spalle salendo, e spero che presto mi vedrete di ritorno, per ringraziarvi meglio, e con la roba che cerco." Pronunciate queste parole, alle quali il monaco rispose solo che lo avrebbe ricevuto con gioia, e che desiderava che ciò avvenisse, il principe risalì a cavallo e prese congedo dal monaco con un profondo inchino, e, gettata la palla davanti a sé, la seguì. La palla rotolò e continuò a rotolare quasi con la medesima velocità che il principe Bahman le aveva impressa scagliandola: il che l'obbligò a mettere il cavallo alla stessa corsa della palla per seguirla, e non perderla di vista. Quando fu alle falde della montagna che il monaco gli aveva indicato, si fermò e discese dal cavallo, che rimase al suo posto, quantunque gli avesse messa la briglia sul collo. Dopo che ebbe riconosciuta la montagna e le pietre nere, cominciò a salire, e non aveva fatto che quattro o cinque passi, quando le voci, di cui il monaco gli aveva parlato, si fecero sentire. Certe dicevano: "Dove va questo balordo? Dove va mai? Che vuole? Non lasciatelo passare". Altre esclamavano: "Fermatelo, prendetelo, uccidetelo!". Altre ancora gridavano con voce di tuono: "Al ladro! All'assassino! All'omicida!". Altre al contrario, esclamavano con tono scherzevole: "Non gli fate male, lasciate passare il bel favorito, poiché solo per lui si custodisce la gabbia con l'uccello!". Ad onta di queste voci importune, il principe Bahman salì per qualche tempo con costanza e coraggio: ma le voci raddoppiarono d'intensità provocando un frastuono così grande e vicino a lui, tanto davanti, quanto dietro, che lo colse il terrore. I piedi e le gambe cominciarono a tremargli, vacillò e tosto, vedendo che le forze cominciavano a mancargli, dimenticando la raccomandazione del monaco, si volse per salvarsi, scendendo, e subito fu cambiato in pietra. Tale trasformazione era accaduta a tanti altri prima di lui per aver tentato la stessa impresa, e lo stesso avvenne al suo cavallo. Dopo la partenza del principe Bahman, per il suo viaggio, la principessa Parizade, che portava, legato alla cintura, il coltello con il fodero, che le aveva lasciato il fratello, perché potesse sapere se era morto o vivo, non aveva mancato di snudarlo e di consultarlo molte volte ogni giorno. In tal modo aveva avuto la consolazione di saperlo in perfetta salute e di parlare sovente di lui col principe Perviz, che la preveniva qualche volta chiedendole notizie. Il giorno in cui il principe Bahman fu trasformato in pietra, il principe e la principessa se ne stavano a parlare di lui, secondo il solito, verso sera: "Sorella mia", le disse Perviz, "prendi il coltello, ti prego, e vediamo se ci sono notizie". La principessa lo tolse dal foro, e guardandolo, videro che il sangue scorreva dall'estremità. La principessa presa da orrore e da dolore gettò il coltello. "Ah! mio caro fratello, io ti ho dunque perduto, e perduto per mia colpa, e non ti rivedrò più! Perché mai ti ho parlato dell'uccello che parla, dell'albero che canta e dell'acqua gialla? E che mi importava di sapere se la devota trovasse bella e perfetta la nostra casa? Piacesse al cielo che non vi fosse mai venuta! Ipocrita, ingannatrice, così hai ricambiato l'ospitalità che ti ho dato? Perché mi hai parlato d'un uccello, d'un albero e di un'acqua che, per quanto possano essere immaginari come mi persuade la fine infelice d'un caro fratello, non lasciano tuttavia di turbarmi lo spirito col loro incantesimo!" Il principe Perviz, non fu meno afflitto per la morte del principe Bahman di quanto lo fosse la principessa Parizade: ma senza perder tempo nell'affliggersi inutilmente, quando ebbe compreso dal dispiacere di sua sorella, che essa desiderava sempre appassionatamente di avere l'uccello che parlava, l'albero che cantava e l'acqua gialla, l'interruppe dicendo: "Sorella mia, non serve piangere il nostro fratello Bahman; i nostri pianti e il nostro dolore non lo faranno certo risorgere. Noi dobbiamo fare la volontà di Dio e adorarlo nei suoi decreti, senza penetrarli. Perché ora dubiti delle parole della devota musulmana, dopo avervi prestato fede? Credi che ella ti avrebbe parlato di queste tre cose se non esistessero? O che se le sia inventate per ingannarti, mentre l'avevi ben ricevuta ed accolta con tanta cortesia e bontà? Pensiamo piuttosto che la morte del nostro fratello è stata causata dalla sua colpa o da qualche evento che non possiamo immaginare; così, sorella mia, che la sua morte non c'impedisca di continuare la nostra ricerca; io mi ero offerto di fare il viaggio in sua vece, e ora sono della stessa idea e siccome il suo esempio non mi fa cambiare pensiero, così domani partirò". La principessa fece quanto poté per dissuaderlo, pregandolo di non esporla al pericolo di perdere invece di un fratello, due: ma egli fu irremovibile, nonostante le preghiere che ella gli fece. Prima di partire, perché lei potesse essere informata del successo del viaggio che intraprendeva, come lo era stata di quello del principe Bahman, grazie al coltello che egli aveva lasciato, le diede una corona di perle di cento grani, e mostrandogliela: "Sgrana questa corona pensando a me durante la mia assenza, e se i grani si fermano, di modo che non si possa più farli scorrere gli uni dopo gli altri, quasi fossero incollati, sarà segno che avrò fatto la stessa fine di mio fratello. Ma speriamo che ciò non avvenga e che abbia la fortuna di rivederti, con la soddisfazione che ne aspettiamo ambedue". Il principe Perviz partì, ed il ventesimo giorno del suo viaggio incontrò lo stesso monaco, nel luogo dove il principe Bahman l'aveva trovato. Si avvicinò a lui, e dopo averlo salutato, lo pregò d'insegnargli il luogo dove era l'uccello che parlava, l'albero che cantava e l'acqua gialla. Il monaco gli fece le stesse difficoltà e gli rivolse le stesse raccomandazioni che aveva fatto al principe Bahman, fino a dirgli che non molto tempo prima un giovine cavaliere cui moltissimo assomigliava, gli aveva domandato la stessa strada, che vinto dalle sue insistenze, gliel'aveva insegnata indicandogli ciò che doveva fare per riuscire: ma che non l'aveva visto ritornare, e che non poteva quindi dubitare che avesse avuto la stessa sorte di quelli che lo avevano preceduto. "Buon monaco", disse il principe Perviz, "so bene chi era colui di cui mi parlate; è appunto mio fratello maggiore, e so con certezza che egli è morto, ma ignoro in qual modo." "Posso dirvelo", rispose il monaco; "egli è stato trasformato in una pietra nera come quelli che l'hanno preceduto e di cui vi ho parlato, e dovete aspettarvi la stessa trasformazione, a meno che non osserviate più attentamente di lui i buoni consigli che io gli avevo dati, sempre che persistiate a non voler rinunciare alla vostra risoluzione, cosa cui vi esorto ancora una volta." "Monaco", disse il principe Perviz, "non posso mostrarvi abbastanza quanto vi sono grato della preoccupazione che manifestate per la conservazione della mia vita, benché vi sia sconosciuto, e nulla abbia fatto per meritare la vostra bontà. Ma debbo dirvi che prima di risolvermi a questo passo, vi ho molto pensato, e non posso rinunciarvi; vi supplico quindi di concedermi la stessa grazia che avete fatta a mio fratello. Forse io riuscirò meglio di lui a seguire le vostre istruzioni." "Vedo che non posso riuscire a persuadervi ad abbandonare ciò che avete deciso. Se la mia vecchiaia non me lo impedisse e mi potessi sostenere, mi alzerei per darvi la palla che tengo presso di me e che vi deve servire da guida." Senza dare a questi la pena di proseguire oltre, il principe Perviz discese a terra, e avanzò fino a lui; il monaco prese la palla dal sacco, dove ce n'erano molte altre, e gliela diede spiegandogli che cosa dovesse farne, come aveva istruito anche il principe Bahman: e dopo avergli raccomandato di non spaventarsi delle voci che avrebbe udito senza vedere alcuno, per quanto potessero sembrargli minacciose, e di non desistere dal salire fino a che non avesse visto la gabbia, lo congedò. Il principe Perviz ascoltò con attenzione le istruzioni e ringraziò il derviscio; quando fu risalito a cavallo, gettò la palla innanzi a sé, e nello stesso tempo, spronando, la seguì. Giunse finalmente ai piedi del monte e, vista la palla, discese a terra. Prima di muovere il primo passo per salire, si fermò un momento nello stesso luogo, per richiamare alla memoria gli avvertimenti del monaco. Prese coraggio e salì, ben risoluto a giungere fino alla cima del monte. Dopo cinque o sei passi, udì dietro a sé una voce che gli parve molto vicina, come di un uomo che lo chiamasse e l'insultasse, esclamando: "Aspetta, temerario, affinché ti punisca del tuo ardire!". A questo oltraggio, il principe Perviz dimenticò tutti i consigli del monaco, impugnò la sciabola, e si voltò per vendicarsi: ma ebbe appena il tempo di vedere che nessuno lo seguiva, e improvvisamente furono trasformati in pietra nera, lui ed il suo cavallo. Dacché il principe Perviz era partito, la principessa Parizade non aveva tralasciato ogni giorno di prendere tra le mani la corona che aveva ricevuta nel giorno in cui il fratello era partito: e quando null'altro aveva da fare ne passava i grani l'uno dopo l'altro fra le dita. Non la abbandonava neppure la notte. Quando il principe Perviz cadde nella stessa disgrazia di suo fratello Bahman, ella tenendo la corona, all'improvviso sentì che i grani non obbedivano più al moto che dava loro; e comprese che quello era il segno della morte del principe suo fratello. Siccome aveva già preso la sua risoluzione su ciò che avrebbe fatto nel caso che ciò fosse accaduto, fece uno sforzo per non lasciar scorgere il suo dolore e subito, il giorno seguente, dopo essersi travestita da uomo, armata di tutto punto, e dopo aver detto alle sue genti che in pochi giorni sarebbe stata di ritorno, salì a cavallo, e partì, incamminandosi per la stessa strada che avevano seguito i due principi suoi fratelli. La principessa Parizade, solita a salire a cavallo e a partecipare alle battute di caccia, tollerò la fatica del viaggio meglio di molte altre donne. Avendo impiegato nel suo viaggio le stesse giornate dei principi suoi fratelli, incontrò pure lei il monaco al ventesimo giorno di cammino. Quando gli fu vicina, discese a terra e, tenendo il cavallo per la briglia, andò a sedersi vicino a lui, e dopo averlo salutato, gli disse: "Buon monaco, permettetemi di riposarmi per qualche momento vicino a voi, e fatemi la grazia di dirmi dove si trovano l'uccello che parla, l'albero che canta e l'acqua gialla". Il monaco rispose: "Signora, la vostra voce mi rivela che siete una donna, quantunque siate travestita da uomo. Io conosco il luogo ove si trovano le cose di cui mi parlate: ma vorrei sapere perché mi fate questa domanda". "Buon monaco", riprese la principessa Parizade, "mi è stato detto tanto bene di queste tre cose che ardo dal desiderio di possederle." "Signora", rispose il monaco, "vi è stato detto il vero: ma le difficoltà da superare per giungerne in possesso sono immense. Seguite il mio consiglio, non andate oltre, ritornatevene a casa e non pretendete che io voglia contribuire alla vostra perdita." "Buon padre", replicò la principessa, "io vengo da lontano, e mi rincrescerebbe troppo di ritornare donde sono partita senza avere eseguito il mio disegno. Voi mi parlate delle difficoltà e del pericolo di perdere la vita: ma non mi dite quali siano le difficoltà, e in che consistano questi pericoli; questo è quello che vorrei sapere per vedere se sia possibile superarli, affidandomi al mio coraggio." Il monaco allora ripeté alla principessa Parizade lo stesso discorso che aveva tenuto ai principi Bahman e Perviz, esagerandole la difficoltà di salire fino alla cima del monte, dove era l'uccello nella gabbia, del quale bisognava impadronirsi; dopo di che l'uccello le avrebbe rivelato dove erano l'albero e l'acqua gialla; e descrisse il rumore e lo strepito delle voci minacciose e spaventose che da tutte le parti si udivano senza vedere alcuno, e infine la quantità delle pietre nere, cosa che sola avrebbe ispirato spavento a lei e ad ogni altro, sapendo che quelle pietre erano bravi cavalieri, così trasformati per aver mancato di seguire la principale delle condizioni per riuscire in quella impresa, e cioè di non voltarsi mai, prima di essersi impossessati della gabbia. Quando il monaco ebbe terminato, la principessa riprese: "Da quanto mi dite mi pare che la prima difficoltà per riuscire in questo affare sia di salire fino alla gabbia senza spaventarsi dello strepito delle voci che si odono, mentre non si vede alcuno, e la seconda di non guardare dietro di sé. Per quello che riguarda quest'ultima condizione, credo che saprò essere padrona di me stessa; quanto alla prima confesso che delle voci, tali quali me le rappresentate, possano spaventare i più coraggiosi: ma siccome in tutte le imprese importanti e pericolose non è proibito impiegare qualche astuzia, così vi chiedo se si potrebbe farsene uso in questa". "E di quale astuzia volete voi servirvi?", domandò il monaco. "Mi pare", riprese la principessa, "che, otturandomi le orecchie con la bambagia, quelle voci per veementi e spaventevoli possano essere non produrrebbero che una minima impressione: e in tal modo, producendo minore effetto sulla mia immaginazione, non avrei nessun motivo di confondermi fino a perdere l'uso della ragione." "Signora", riprese il monaco, "di tutti quelli che finora si sono rivolti a me per informarsi sulla strada che voi cercate, non so se qualcuno si sia servito dell'astuzia che mi proponete. Quello che so è che neppur uno me l'ha proposto e che tutti sono morti. Se persistete nel vostro disegno, ne potete fare l'esperimento, ma non vi consiglio di tentare." "Buon padre", replicò la principessa, "volete che rinunci? Il cuore mi dice che l'astuzia mi riuscirà, e sono risoluta a servirmene. Siccome al presente non mi rimane altro se non d'imparare da voi per quale strada mi debba incamminare, così vi scongiuro di non negarmi questa grazia." Il monaco l'esortò per l'ultima volta a tornarsene indietro, ma, visto che quella era irremovibile nella sua idea, prese una palla e le disse: "Risalite a cavallo e, quando l'avrete gettata davanti a voi, seguitela, finché giunta alle falde del monte la vedrete fermarsi. Fermatevi allora, discendete a terra, e salite. Il rimanente lo sapete, e non dimenticatevi di profittarne". La principessa Parizade, dopo aver ringraziato il monaco ed essersi congedata da lui, risalì a cavallo, gettò la palla, e la seguì per la strada che quella prese rotolando; la palla continuò a correre e, giunta finalmente alle falde del monte, si arrestò. La principessa discese a terra, si otturò le orecchie con la bambagia, e, dopo aver ben bene considerato la strada per giungere alla cima del monte, cominciò a salire a passi eguali, con grande coraggio. Udì le voci e subito constatò che il cotone le era di grande aiuto. Più saliva, più le voci si facevano insistenti, ma non giungevano a spaventarla. Udì molte specie d'ingiurie e di pungenti motteggi perché era una donna, ma non se ne offese e ne rise. "Io non mi offendo né delle vostre ingiurie né dei vostri motteggi", diceva fra sé, "parlate, parlate pure, me ne rido, e non m'impedirete di continuare il mio viaggio!" Salì insomma così in alto che cominciò a vedere la gabbia e l'uccello, il quale, d'accordo con le voci, cercava d'intimorirla, gridando con voce strepitosa, nonostante la piccolezza del suo corpo: "Pazza, vattene, non avvicinarti!". La principessa, incoraggiata da questa vista, affrettò il passo, e finalmente si vide vicina alla cima del monte dove il terreno era piano. Corse direttamente alla gabbia e vi pose la mano sopra, dicendo all'uccello. "Uccello, a tuo dispetto sei in mio potere, e non mi sfuggirai!" Mentre Parizade si toglieva la bambagia dalle orecchie, l'uccello le disse: "Brava signora, non odiatemi perché mi sono unito a quelli che con tutti i loro sforzi cercavano di conservarmi la mia libertà. Benché rinchiuso in una gabbia, ero contento della mia sorte: ma, dovendo divenire schiavo, preferisco aver voi per padrona, voi, che con tanto coraggio mi avete conquistato e più degnamente di qualsiasi altra persona al mondo. Da questo momento giuro di servirvi con una inviolabile fedeltà, e una completa sottomissione a tutti i vostri comandi. So chi siete, e vi dirò che voi stessa non sapete chi siete: ma verrà un giorno in cui vi farò un favore del quale spero mi sarete grata. Per cominciare a dimostrarvi la mia sincerità, sono pronto ad obbedirvi, se mi direte ciò che volete". La principessa piena di giubilo per aver conseguito ciò che le era tanto costato: la morte di due fratelli che teneramente amava e tanti stenti e pericoli, che erano stati ben maggiori di quanto pensasse, malgrado tutto ciò che il monaco le aveva detto, dopo che l'uccello ebbe terminato di parlare, disse: "Uccello, era mia intenzione dirti che desidero molte cose che m'importano molto ed ho gran piacere che tu mi abbia prevenuta con la tua buona volontà. Ho saputo che qui vi è un'acqua gialla, le cui proprietà sono meravigliose: ti chiedo prima di tutto di indicarmi dove posso trovarla". L'uccello le insegnò il luogo che non era molto distante. Ella vi andò, e riempì un piccolo fiasco d'argento che portava con sé con quell'acqua straordinaria. Ritornò poi dall'uccello, e gli disse: "Uccello, questo non è tutto; cerco pure l'albero che canta: dimmi dov'è?". L'uccello le disse: "Voltatevi, e dietro a voi vedrete un bosco, dove ritroverete quest'albero: il bosco non è lontano". La principessa corse là, e si trovò tra molti alberi; dall'armonioso concerto che ne usciva riconobbe quello che cercava; ma era molto grosso e molto alto. Ritornò quindi dall'uccello e gli disse: "Uccello, ho trovato l'albero che canta, ma non posso né sradicarlo, né portarlo!". "Non è necessario sradicarlo", rispose l'uccello, "basta che ne pigliate un ramoscello, e che lo portiate con voi per trapiantarlo nel vostro giardino, dove attecchirà non appena l'avrete confitto in terra: in poco tempo lo vedrete diventare un albero bello al pari di quello che avete visto." Quando la principessa Parizade si vide in possesso delle tre cose che la buona musulmana le aveva fatto desiderare, disse di nuovo all'uccello: "Uccello, quanto hai fatto per me non è sufficiente. Tu hai causato la morte dei miei due fratelli, che devono essere fra le pietre nere che ho visto nel salire; voglio ricondurli a casa con me". L'uccello dimostrò di non voler soddisfare la principessa su questo punto, e le fece molte difficoltà. "Uccello", insisté la principessa, "ricordati che ti sei dichiarato mio schiavo, che veramente lo sei, e che la tua vita è a mia disposizione." "Io non ho nulla", riprese l'uccello, "da opporre a questa verità: e benché quanto mi chiedete sia più difficile delle altre cose che ho fatto finora, non tralascerò di soddisfarvi. Volgete gli occhi qui intorno", soggiunse, "e guardate se scorgete una piccola brocca." "La vedo", disse la principessa. "Pigliatela", replicò l'uccello, "e, discendendo dal monte, versate un po' dell'acqua, di cui è piena, sopra ogni pietra nera: questo sarà il mezzo di ritrovare i vostri due fratelli." La principessa Parizade prese la brocca, e portando con sé la gabbia dell'uccello, il piccolo fiasco dell'acqua gialla ed il ramo dell'albero, versò l'acqua della brocca sopra ogni pietra nera che incontrava, ed ognuna si tramutava in uomo. E siccome lei non ne tralasciò neppure una, anche tutti i cavalli, tanto dei principi suoi fratelli quanto degli altri signori, riebbero vita. In tal modo riconobbe i principi Bahman e Perviz, che pure la riconobbero e corsero ad abbracciarla. Dopo che ebbe ricambiato i loro baci manifestò loro il suo stupore: "Cari fratelli", disse, "che fate mai qui?". Essi risposero che avevano dormito. "Sì", replicò lei allora, "ma senza di me il vostro sonno durerebbe ancora, e forse sarebbe durato sino alla fine del mondo. Non vi ricordate di essere venuti a cercare l'uccello che parla, l'albero che canta e l'acqua gialla, e di aver visto al vostro arrivo le pietre nere delle quali era disseminato questo luogo? Guardate e vedete se ci sono ancora. I signori che sono qui, e voi, voi tutti, dico, eravate pietre, come pure i vostri cavalli, che vi aspettano, come potete vedere. E se volete sapere in che maniera sia avvenuta questa meraviglia, sappiate", continuò, accennando alla brocca, di cui non aveva più bisogno e che aveva deposto in terra, "che grazie alla virtù dell'acqua di cui questa brocca era piena, e che ho versato sopra ogni pietra nera, esse sono ritornate uomini e cavalli come erano prima. Siccome, dopo aver fatto mio schiavo l'uccello che parla, e che è in questa gabbia, e aver ritrovato per mezzo suo l'albero che canta, del quale tengo un ramo, e l'acqua gialla di cui è pieno questo fiasco, non volevo ritornarmene senza ricondurvi con me, così l'ho costretto, col potere che ho acquistato sopra di lui, a suggerirmene il mezzo; mi ha mostrato dov'era questa brocca, e mi ha insegnato quale uso dovessi farne." I principi Bahman e Perviz da questo discorso compresero quanto dovevano alla principessa loro sorella; e così anche gli altri cavalieri, che si erano tutti radunati intorno a loro e avevano udito lo stesso discorso; essi le dissero che non volevano certo invidiarla per la conquista che aveva fatto ed alla quale essi avevano invano aspirato e che anzi non potevano dimostrarle meglio la loro riconoscenza per aver loro ridonato la vita, che dichiarandosi suoi schiavi pronti ad eseguire quanto lei avesse ordinato. "Signori", riprese la principessa, "se avete prestato attenzione al mio discorso, avrete notato che agendo come ho fatto, non avevo altra intenzione che di salvare i miei fratelli; sicché, se ne avete ricevuto beneficio, non me ne dovete alcuna gratitudine. D'altra parte apprezzo la cortesia che mi volete mostrare, e ve ne ringrazio, come richiede il mio dovere. Ma vi considero, ognuno in particolare, come persone libere, quali eravate prima della vostra disgrazia, e con voi mi rallegro della fortuna che avete avuto. Ma non ci fermiamo oltre in un luogo dove nulla ci trattiene, risaliamo a cavallo, e ritorniamo ognuno al paese dal quale siamo partiti." La principessa Parizade fu la prima a darne l'esempio, andando a prendere il suo cavallo, che ritrovò dove lo aveva lasciato. Prima che salisse a cavallo, il principe Bahman, che voleva aiutarla, la pregò di lasciargli portare la gabbia. "Fratello mio", rispose la principessa, "l'uccello è mio e lo voglio portare io stessa, ma se ti vuoi incaricare dell'albero che canta, eccolo. Però prendi ora anche la gabbia che mi restituirai quando sarò a cavallo." Salita che fu a cavallo, il principe Bahman le restituì la gabbia ed ella disse, rivolta all'altro fratello: "A te, Perviz, il fiasco dell'acqua gialla, che affido alla tua custodia, se non ti è d'incomodo". E il principe Perviz se ne incaricò con molto piacere. Il principe Bahman, il principe Perviz e tutti i signori salirono a cavallo, e la principessa Parizade aspettò che qualcuno di loro si mettesse alla testa e cominciasse a camminare. I due principi vollero cortesemente lasciare questo onore a quei signori, ma questi volevano lasciarlo alla principessa; lei allora, quando vide che nessuno di quei signori voleva profittare di questo vantaggio, per lasciarne a lei l'onore, rivolgendosi a tutti, disse: "Signori, aspetto che vi mettiate in cammino". "Signora", rispose a nome di tutti uno che le era più vicino, "quand'anche ignorassimo ciò che è dovuto a una signora, non vi è onore che non siamo pronti a rendervi dopo quanto avete fatto per noi, nonostante la vostra modestia. Vi supplichiamo, perciò, di non privarci più a lungo della felicità di seguirvi." "Signori", disse allora la principessa, "io non merito l'onore che mi fate, e lo accetto solo perché lo desiderate." Nello stesso tempo ella si mise in cammino, e i due principi coi signori la seguirono in gruppo senza alcuna distinzione. Il drappello volle vedere, passando, il monaco, per ringraziarlo della sua gentile accoglienza e dei suoi salutari consigli che si erano dimostrati sinceri; ma egli era morto, né si poté sapere se fosse morto di vecchiezza, o perché non era più necessario per insegnare la strada che conduceva alle tre cose preziose, che la principessa Parizade aveva conquistato. In tal modo il drappello continuò il suo viaggio, ma ogni giorno andava assottigliandosi poiché i signori che erano venuti da diversi paesi, dopo avere ognuno in particolare ringraziato la principessa, si congedavano via via da lei e dai principi suoi fratelli quando giungevano alla strada per la quale erano venuti. La principessa ed i principi Bahman e Perviz continuarono il cammino, finché giunsero alla loro casa. Come fu giunta, la principessa depose la gabbia nel giardino del quale abbiamo parlato, e appena l'uccello fece udire il suo canto, gli usignoli, i canarini, i francolini, i fringuelli, i cardellini ed una infinità di altri uccelli del paese vennero ad accompagnarlo col loro canto. Poi, fece piantare alla sua presenza il ramo in un luogo del giardino poco discosto dalla casa: quello attecchì subito ed in poco tempo divenne un grande albero, le cui foglie produssero in breve la stessa armonia e lo stesso concerto che produceva l'albero da cui era stato staccato. Quanto al fiasco dell'acqua gialla, ella fece preparare una vasca di marmo bellissimo nel giardino e quando fu terminata vi versò tutta l'acqua gialla che era contenuta nel fiasco. Subito quella cominciò a crescere in abbondanza, gonfiandosi, e quando fu giunta quasi fino all'orlo della vasca, s'innalzò nel mezzo, fino all'altezza di venti piedi, ricadendo e continuando egualmente a sgorgare, senza che l'acqua traboccasse. La notizia di queste meraviglie si sparse nel vicinato, e poiché le porte della casa e del giardino non erano chiuse a nessuno, un gran concorso di popolo dei dintorni le venne a vedere. Dopo qualche giorno i principi Bahman e Perviz, perfettamente rimessi dalla fatica del viaggio, ripresero la loro solita vita, e siccome la caccia era il loro divertimento abituale, così salirono a cavallo, e per la prima volta dopo il ritorno, se ne andarono non nel loro parco, ma lontano due o tre leghe dalla loro casa. Mentre essi stavano cacciando, il sultano di Persia giunse, anch'egli cacciando, nel medesimo luogo che essi avevano scelto. Non appena, dal gran numero di cavalieri che videro comparire si furono accorti che egli stava per giungere, essi ritennero opportuno ritirarsi, per evitare il suo incontro, ma invece lo incontrarono proprio sulla strada che avevano scelto per tornare a casa, e in un luogo tanto stretto che non potevano né tornare indietro né nascondersi senza essere visti. Nella loro sorpresa ebbero appena il tempo di discendere da cavallo, e di portarsi davanti al sultano, con la fronte a terra, senza alzare il capo per guardarlo: ma il sultano, vedendo che erano ben messi e vestiti come se appartenessero alla sua corte, ebbe la curiosità di vederli in volto, e, fermandosi, comandò loro di alzarsi. I principi si alzarono e rimasero in piedi davanti al sultano con un aspetto franco e sereno, ma modesto e rispettoso. Il sultano li guardò per qualche tempo da capo a piedi senza parlare: e dopo aver considerato il loro aspetto piacente, domandò chi fossero e dove abitassero. Il principe Bahman prese allora la parola e rispose: "Sire, siamo figli del defunto intendente dei giardini della maestà vostra, e viviamo in una casa che egli, poco tempo prima della sua morte, ha fatto edificare, affinché vi abitassimo fino a quando non fossimo in età di servire la maestà vostra, e di venire a implorare qualche ufficio, quando si fosse presentata l'occasione". "A quel che vedo", riprese il sultano, "voi amate la caccia." "Sire", rispose il principe Bahman, "questo è il nostro piacere abituale, e nessuno dei sudditi della maestà vostra, destinati a combattere, lo trascura." Il sultano, meravigliato di una risposta tanto prudente e saggia, disse loro: "Allora avrò gran piacere nel vedervi cacciare. Venite dunque, e scegliete la preda che più vi piace". I principi risalirono a cavallo, seguirono il sultano, e, dopo un breve cammino, videro comparire tutto ad un tratto molti animali. Il principe Bahman scelse un leone, e il principe Perviz un orso. Partirono l'uno e l'altro nello stesso tempo dimostrando un coraggio che sorprese il sultano. Raggiunsero la loro preda quasi subito, l'uno dopo l'altro, e lanciarono i loro dardi con tanta destrezza che trapassarono da parte a parte, il principe Bahman il leone, ed il principe Perviz l'orso. Senza fermarsi, il principe Bahman inseguì un altro leone e il principe Perviz un altro orso: ed in poco tempo li uccisero. Essi volevano continuare la caccia, ma il sultano non lo permise e li fece richiamare: poi quando furono vicini a lui, disse loro: "Se vi dessi la libertà di agire, voi in breve distruggereste tutti gli animali. Peraltro non mi preme tanto di conservarmi la selvaggina, quanto di risparmiare le vostre persone, la cui vita mi sarà ormai carissima, poiché sono persuaso che la vostra valentia potrà essermi, all'occasione, molto più utile di quanto mi sia ora gradita". Il sultano Khoshr Shah, insomma, provò tanta simpatia per i due principi, che li invitò ad andare a vederlo, e a seguirlo. "Sire", disse il principe Bahman, "la maestà vostra ci fa un onore che noi non meritiamo, e la supplichiamo di volercene dispensare." Il sultano, che non comprendeva quale ragione potessero avere i principi per non accettare la prova di amicizia che testimoniava loro, lo chiese loro e li spronò a rispondere. "Sire", disse il principe Bahman, "noi abbiamo una sorella, con la quale viviamo in tale e tanta armonia, che non intraprendiamo nulla, né facciamo nulla se non abbiamo prima chiesto il suo parere: ed essa egualmente, dal canto suo, non fa nulla senza il nostro consenso." "Lodo molto la vostra armonia fraterna", riprese il sultano, "consigliatevi dunque con vostra sorella, e domani, ritornando a caccia con me, mi darete la risposta." I due principi ritornarono a casa, ma né l'uno né l'altro, si ricordò di aver incontrato il sultano, e di aver avuto l'onore di cacciare con lui, e neppure di parlare alla principessa di quello che egli aveva detto loro, e cioè che li voleva presso di sé, a corte. Il giorno seguente, appena furono davanti al sultano, questi domandò loro: "Ebbene, avete parlato a vostra sorella? Acconsente al mio desiderio?". I principi si guardarono, e il rossore coprì il loro viso. "Sire", rispose il principe Bahman, "supplichiamo la vostra maestà di scusarci: né mio fratello, né io ce ne siamo ricordati!" "Ricordatevene dunque oggi", rispose il sultano, "e portatemi domani la vostra risposta." I due principi se ne scordarono anche la seconda volta, ma il sultano non si adirò della loro negligenza, anzi, prendendo tre palline d'oro che aveva in una borsa, e ponendole nella cintura al principe Bahman, gli disse sorridendo: "Queste palle faranno sì che la terza volta non vi dimenticherete di ciò che vorrei che faceste per amor mio: lo strepito che faranno questa sera cadendo dalla vostra cintura, ve ne farà ricordare". Avvenne come il sultano aveva previsto. Senza le tre palle d'oro i principi si sarebbero di nuovo dimenticati di parlare alla principessa Parizade loro sorella. Ma quelle caddero dalla cintura del principe Bahman, quando se la levò per andare a letto, e subito egli andò a raggiungere il principe Perviz, e insieme si recarono all'appartamento della principessa, che non era ancora coricata, e domandandole perdono per essere andati ad importunarla a tarda ora, le esposero ogni cosa, con tutti i particolari del loro incontro col sultano. La principessa Parizade restò stupefatta da questa notizia. "Il vostro incontro col sultano", ella disse, "è fortunato e vi fa onore: ma per me è molto mesto e infausto. Io ben comprendo che voi abbiate resistito al desiderio del sultano per amor mio, e ve ne sono infinitamente grata, perché mi avete dimostrato che il vostro amore corrisponde perfettamente al mio. Avete infatti preferito fare quasi una scortesia al sultano, con un rifiuto, anziché venir meno all'unione fraterna che ci siamo giurata: e avete ben giudicato. Infatti se aveste cominciato a frequentarlo, sareste in obbligo di abbandonarmi insensibilmente, per dedicarvi interamente a lui. Ma credete che sia facile negare al sultano ciò che egli vuole con tanta premura come dimostra? Quello che i sultani vogliono è un ordine al quale è pericoloso resistere. Se, seguendo la mia inclinazione, vi dissuadessi dal fare ciò che esige da voi, non farei che esporvi al suo risentimento, e rendermi infelice con voi. Ascoltate dunque il mio pensiero: prima di decidere, consultiamo l'uccello che parla e vediamo ciò che consiglierà; egli è accorto e prevede tutto, e ci ha promesso il suo soccorso nelle difficoltà." La principessa Parizade si fece portare la gabbia, e dopo aver esposto la difficoltà all'uccello, alla presenza dei principi, gli chiese quel che dovessero fare in quel frangente. L'uccello rispose: "Bisogna che i principi vostri fratelli obbediscano al volere del sultano, e lo invitino una volta a venire a vedere la vostra casa". "Ma sappi, uccello", riprese la principessa, "che i miei fratelli ed io siamo legati da un amore incomparabile: questo amore non avrà a soffrire per questa decisione?" "Nient'affatto", rispose l'uccello, "diventerà anzi più costante e forte." "Quando è così", replicò la principessa, "il sultano mi vedrà." L'uccello le disse che era necessario che la vedesse, e che tutto sarebbe avvenuto per il meglio. Il giorno seguente i principi Bahman e Perviz ritornarono a caccia, e il sultano, da lontano, ma in modo da poter essere udito, chiese loro se si fossero ricordati di parlare alla sorella. Il principe Bahman si accostò e gli disse: "Sire, la maestà vostra può disporre di noi, e siamo pronti ad obbedirla: abbiamo ottenuto senza nessuna fatica l'assenso di nostra sorella, e anzi lei si è mostrata dispiaciuta perché per amor suo abbiamo esitato a obbedire alla maestà vostra come avremmo dovuto. Sire, se abbiamo peccato, speriamo che la vostra maestà ce lo perdonerà". "Non preoccupatevi per questo", riprese il sultano, "invece di sentir dispiacere per il vostro contegno l'approvo talmente, che spero avrete per la mia persona lo stesso affetto." I principi, confusi della bontà del sultano, non risposero se non con un profondo inchino, per dimostrargli il gran rispetto che avevano per lui. Il sultano, secondo il suo solito, non prolungò molto la caccia. Egli aveva giudicato che i principi non avevano meno spirito che valore e bravura, ed era così impaziente di intrattenersi con loro con più agio al ritorno, che volle che quelli stessero al suo fianco, onore che, senza parlare dei principali cortigiani, suscitò l'invidia anche del gran visir, il quale rimase sommamente afflitto di vederli camminare davanti a lui. Quando il sultano fu entrato nella capitale, il popolo, che si trovava nelle strade, non guardò che i due principi Bahman e Perviz, cercando di indovinare chi potessero essere, se stranieri o del regno. "Comunque sia", dicevano, "piacesse al cielo che il sultano ci avesse dato due principi tanto belli e di aspetto piacevole! Potrebbe avere due figli pressappoco della stessa età, se i parti della sultana fossero stati felici." Per prima cosa il sultano, giungendo al palazzo, condusse i principi nei migliori appartamenti, dei quali essi lodarono la bellezza e le ricchezze, gli ornamenti e l'ordine, senza adulazione, e come persone che se ne intendessero. Fece preparare loro un magnifico banchetto, e li fece sedere accanto a sé a tavola; essi volevano esimersene, ma obbedirono quando il sultano dichiarò che tale era il suo volere. Il sultano, il quale aveva moltissimo ingegno, ed era molto colto nelle scienze e particolarmente nella storia, aveva previsto che per modestia e rispetto i principi non si sarebbero presi la libertà di cominciare a conversare. Per dar loro modo di parlare egli dette il via alla conversazione che fu continuata poi durante il convito: ma su qualunque argomento li interrogasse, essi lo soddisfecero con tanta cultura, spirito, saggezza e discernimento, che ne restò stupefatto. "Se fossero figli miei", diceva tra sé, "e se con lo spirito che hanno, avessi loro dato l'educazione che spetta ai sovrani, non ne saprebbero di più, né sarebbero più capaci, o meglio istruiti." Egli prese insomma un tal piacere alla loro conversazione, che dopo essersi trattenuto a tavola più del solito, passò nel suo salottino, ove si intrattenne ancora assai a lungo con loro. Il sultano finalmente disse: "Non avrei mai creduto che in campagna abitassero giovani signori, miei sudditi, così bene allevati, spiritosi e abili: dacché ho vita non ho mai goduto una conversazione che mi abbia dato tanto piacere, quanto la vostra. Ma ora basta; è tempo che diate riposo allo spirito con qualche altro divertimento della mia corte, e giacché nulla può dissipare la stanchezza quanto la musica, udirete un concerto di voci e di strumenti che non vi dispiacerà". Quando il sultano ebbe terminato di parlare, i musici, che ne avevano avuto l'ordine, entrarono e corrisposero molto bene a ciò che ci si aspettava dalla loro abilità. Al concerto successero molti eccellenti comici e non pochi ballerini resero completo il divertimento. I due principi, vedendo che si avvicinava la fine del giorno, si prostrarono ai piedi del sultano e, chiedendogli il permesso di ritirarsi, lo ringraziarono della bontà e degli onori dei quali li aveva colmati. Il sultano rispose allora: "Vi lascio andare, ma ricordatevi che vi ho condotto io stesso al mio palazzo per insegnarvene la strada, perché possiate ritornarvi spesso. Voi sarete sempre bene accolti, e quanto più spesso verrete, tanto maggiore sarà il mio piacere". Prima di allontanarsi dal cospetto del sultano, il principe Bahman gli disse: "Sire, osiamo prenderci la libertà di supplicare la maestà vostra di concedere la grazia a noi e a nostra sorella di venire nella nostra casa e di riposarvici per qualche momento, la prima volta che la caccia vi guiderà in quei paraggi. Essa non è certamente degna della vostra presenza, ma i monarchi qualche volta non sdegnano di ripararsi in un fienile". Il sultano rispose: "Una casa di signori come voi non può esser che bella e degna di voi. La vedrò con grande piacere, soprattutto nell'avere per ospiti voi e vostra sorella, che già mi è cara, senza averla vista, dal solo racconto delle sue belle qualità. Né frapporrò indugio a darvi questa soddisfazione e verrò dopodomani. Di buon mattino mi troverò nello stesso luogo dove non mi sono dimenticato di avervi incontrati la prima volta; trovatevi voi pure là e mi farete da guida". Gmap Iraq e ...Cartina dell'Iraq
I principi Bahman e Perviz ritornarono lo stesso giorno a casa e, dopo aver narrato alla principessa Parizade l'accoglienza che il sultano aveva fatto loro, le dissero che non avevano trascurato d'invitarlo nella loro casa, e che lui aveva già indicato il giorno della sua visita. "Quando è così", disse la principessa, "bisogna ora pensare a preparare un banchetto degno di lui, e perciò è bene consultare l'uccello che parla: esso forse ci insegnerà qualche vivanda che potrà essere di gusto del sultano." I principi acconsentirono a quanto lei aveva proposto e così consultò l'uccello in segreto, dopo che essi si furono ritirati. "Uccello", disse, "il sultano ci farà l'onore di venire a vedere la nostra casa, e dobbiamo offrirgli un banchetto; insegnaci come potremo adempiere a questo impegno in maniera che egli ne resti contento." "Mia buona padrona", riprese l'uccello, "voi avete eccellenti cuochi: dovranno fare del loro meglio, e soprattutto dovranno preparare un piatto di cocomeri ripieni di perle, che farete servire al sultano prima di tutte le altre vivande, dopo il primo servizio." "Dei cocomeri ripieni di perle?", gridò la principessa Parizade con stupore. "Uccello, non pensi che questa sia una vivanda insolita? Il sultano potrà ben considerarla come una gran magnificenza, ma a tavola vorrà mangiare, e non ammirare le perle. Inoltre, quando adoperassi tutte le perle che possiedo, non basterebbero nemmeno a riempire un cocomero." "Padrona mia", riprese l'uccello, "fate quanto vi dico, e non inquietatevi di quanto accadrà, poiché ne deriverà un gran bene. Quanto alle perle, andate domani di buon mattino ai piedi del primo albero del vostro parco sulla destra, e fate scavare una buca: ne troverete più di quante ne avrete bisogno." La sera stessa la principessa fece avvisare un giardiniere che stesse pronto, e il giorno appresso di buon mattino lo condusse all'albero che l'uccello le aveva indicato, e gli ordinò di scavare ai piedi del tronco. Nello scavare, il giardiniere quando giunse ad una certa profondità, trovò della resistenza e ben presto scoprì uno scrigno d'oro, della grandezza di un piede quadrato, che mostrò alla principessa. "Per questo appunto ti ho condotto qui", ella gli disse, "continua, e bada bene di non romperlo con la vanga." Il giardiniere finalmente estrasse dalla terra lo scrigno e lo consegnò alla principessa. Siccome lo scrigno era chiuso solo con qualche gancio, la principessa l'aprì, e vide che era pieno di perle tutte di media grandezza, ma bellissime e adatte all'uso per cui ne aveva bisogno. Contentissima di aver trovato questo tesoro, dopo aver chiuso di nuovo lo scrigno, se lo pose sotto il braccio e si incamminò verso casa, mentre il giardiniere accomodava la terra ai piedi dell'albero come era prima. I principi Bahman e Perviz, che avevano visto, ciascuno dal proprio appartamento, la principessa loro sorella in giardino più presto del solito, le andarono incontro, e avendo osservato da lontano che teneva qualche cosa sotto il braccio, le si avvicinarono, e nel vedere che era uno scrigno d'oro, ne restarono sorpresi. "Sorella mia", disse il principe Bahman, fermandola, "tu non portavi nulla quando ti abbiamo vista uscire col giardiniere, e ora ti vediamo carica di uno scrigno d'oro! E' forse un tesoro trovato dal giardiniere?" "Fratelli miei", rispose la principessa, "la cosa succede proprio all'opposto: io ho condotto il giardiniere nel luogo dove era lo scrigno, gliel'ho mostrato e l'ho fatto dissotterrare; e sarete ancor più meravigliati della mia scoperta, quando vedrete ciò che contiene." La principessa aprì lo scrigno, e i principi restarono sommamente meravigliati quando lo videro pieno di perle, non molto grosse a guardarle una per una, ma di un grandissimo valore per la loro perfezione e la loro qualità: e le chiesero per quale caso avesse scoperto quello straordinario tesoro. "Fratelli miei", rispose lei, "se qualche affare più urgente non vi chiama altrove, venite con me e ve lo dirò." Il principe Perviz ripigliò: "Quale affare più urgente potrebbe trattenerci di quello di sapere ciò che tanto ci interessa? Altra premura non abbiamo avuta nel venirti incontro". La principessa Parizade allora, in mezzo ai due principi, riprese il cammino verso casa e narrò loro il discorso dell'uccello quando, gli aveva esposto il suo dubbio a proposito della vivanda dei cocomeri ripieni di perle, e del mezzo che le aveva suggerito per procurarsene, indicandole il luogo dove aveva trovato lo scrigno. I principi e la principessa fecero molti discorsi per scoprire perché l'uccello voleva che si preparasse una tale vivanda per il sultano, giungendo perfino a insegnare i mezzi per riuscirvi: ma dopo aver discusso a lungo, conclusero che non ci capivano nulla e che frattanto bisognava seguire esattamente il consiglio dell'uccello. La principessa, rientrando in casa, fece chiamare il capo-cuoco, che venne nel suo appartamento. Dopo che gli ebbe ordinato il banchetto come lo voleva: "Oltre a tutto ciò che ho detto", soggiunse, "bisogna che prepariate una vivanda apposta per il sultano e che nessun altro fuor di voi vi ponga mano. La vivanda deve essere un piatto di cocomeri ripieni di perle", e nello stesso tempo aprì lo scrigno e gliele mostrò. Il capo-cuoco, che mai aveva udito parlare di un simile ripieno rinculò di due passi, con un volto dal quale ben appariva la sua sorpresa. La principessa, avendo indovinato il suo pensiero, gli disse: "Capisco che tu mi creda pazza poiché ti ordino questo ripieno di cui mai hai sentito parlare, e certamente si può dire che non ne sia mai stato composto uno simile. Questo è vero e lo so al pari di te: ma non sono pazza, e con tutto il senno ti ordino di prepararlo. Va, inventa, fa quanto può suggerirti il tuo ingegno, e porta con te lo scrigno; me lo riporterai con le perle che avanzeranno". Il cuoco, non avendo nulla da ribattere, prese lo scrigno e lo portò via. Lo stesso giorno la principessa Parizade diede tutti gli ordini perché ogni cosa fosse bene accomodata e disposta, tanto in casa quanto in giardino, per accogliere con dignità il sultano. Il giorno seguente i due principi erano già nel luogo indicato, quando giunse il sultano di Persia. Questi diede inizio alla caccia, e la continuò finché l'ardore del sole non l'obbligò a sospenderla. Allora, mentre il principe Bahman restava col sultano per accompagnarlo, il principe Perviz si mise alla testa del corteo per indicare la strada e, quando giunse in vista della casa, spronò il cavallo per andare ad avvisare la principessa Parizade che il sultano stava per giungere; ma i servi della principessa, che per suo ordine stavano di sentinella, l'avevano già avvertita ed il principe la trovò già pronta ad accoglierlo. Giunse il sultano e, non appena fu entrato nella corte ed ebbe messo piede a terra davanti al vestibolo, comparve la principessa Parizade e si prostrò ai suoi piedi; i principi Bahman e Perviz, che erano presenti presentarono al sultano la loro sorella e lo supplicarono di gradire i suoi omaggi. Il sultano si chinò per aiutare la principessa a rialzarsi e, dopo averla guardata, vedendo lo splendore della sua bellezza, restò sopraffatto e quasi fuor di sé e ammirò altresì il suo brio, il suo spirito e un certo non so che, che contrastava con la vita che faceva in campagna. "I fratelli", egli disse, "sono degni della sorella e la sorella è degna dei fratelli; e, a giudicare l'interno dall'esterno, non mi stupisco che i fratelli nulla vogliono decidere senza l'assenso della sorella; spero però di conoscerla meglio di quanto dicano le apparenze quando avrò visto la casa." La principessa allora prese a parlare dicendo: "Sire, questa non è che una semplice casa di campagna, adatta a persone come noi, che menano vita ritirata. Non si può paragonarla alle case delle grandi città, ed è di gran lunga inferiore ai palazzi magnifici che appartengono ai sultani!". "Non sono del vostro parere", disse il sultano con grande cortesia, "o almeno ne dubito, da quello che ha visto finora. Mi riserbo di formare il mio giudizio quando me l'avrete fatta vedere: precedetemi dunque ed indicatemi la strada." La principessa, lasciando il salone, condusse il sultano in ogni appartamento, e quegli, dopo aver esaminato il tutto con attenzione, ne ammirò la varietà. "Mia bella", disse alla principessa Parizade, "voi chiamate questa una casa di campagna? Le città più belle e più grandi diverrebbero in breve deserte se tutte le case di campagna assomigliassero alla vostra. Non mi stupisco che vi stiate bene, e che disprezziate la città. Fatemi vedere il giardino: spero che corrisponda alla casa." La principessa aprì la porta, che dava nel giardino, e ciò che subito colpì gli sguardi del sultano fu la fonte d'acqua gialla color dell'oro. Sorpreso da uno spettacolo tanto nuovo, dopo averlo per qualche tempo osservato con meraviglia: "Di dove viene quest'acqua meravigliosa", disse, "che fa tanto piacere alla vista? Dove è la sorgente, e con quale arte avete ottenuto una fonte tanto straordinaria, e alla quale non credo vi sia nulla di paragonabile nell'universo? Voglio vedere da vicino questa meraviglia". La principessa continuò a condurlo e lo guidò verso il luogo dov'era piantato l'albero armonioso. Nell'accostarsi, il sultano udì un concerto diverso da qualunque altro avesse mai udito, e si fermò, cercando con gli occhi i musici, ma non vedendone né lontani né vicini, quantunque ne udisse chiaramente il concerto, ne fu assai meravigliato. "Mia bella", disse, volgendosi alla principessa Parizade, "dove sono i musici che odo? Sono forse sotto terra, o invisibili nell'aria? Con voci tanto squisite e armoniose, non rischierebbero nulla a lasciarsi vedere." "Sire", rispose la principessa sorridendo, "non sono musici che fanno questo concerto ma l'albero, che la maestà vostra vede davanti a sé, e se ella vuol darsi la pena d'inoltrarsi quattro passi, non ne dubiterà, e udrà le voci con maggior chiarezza." Il sultano avanzò, e restò tanto incantato dalla dolce armonia del concerto, che non si stancava di ascoltare. Finalmente si ricordò che voleva vedere da vicino l'acqua gialla e, rompendo il silenzio: "Mia bella", disse alla principessa, "ditemi, vi prego, questo albero tanto mirabile è cresciuto nel vostro giardino, o vi è stato regalato, oppure lo faceste venire da qualche lontano paese? Bisogna che sia venuto da un luogo molto remoto, perché altrimenti, curioso delle rarità della natura come sono, ne avrei sentito parlare. Con quale nome lo chiamate?". "Sire", rispose la principessa, "quest'albero non ha altro nome se non quello di albero che canta, e in questo paese non ne crescono né se ne vedono. Troppo lungo sarebbe raccontarvi la sua storia. E' una storia che ha relazione con l'acqua gialla e con l'uccello che parla, che abbiamo avuto nello stesso tempo, e che la maestà vostra potrà vedere, dopo che avrà guardata l'acqua gialla da vicino. Se ella lo gradisce, avrò l'onore di narrargliela quando si sarà riposato e rimesso dalle fatiche della caccia, alle quali una nuova ne aggiunge camminando ora sotto il sole." "Mia bella", riprese il sultano, "non mi accorgo della fatica, tanto è ricompensata dalle meraviglie che mi fate vedere; dite piuttosto che io non penso a quella che impongo a voi. Terminiamo dunque, e vediamo l'acqua gialla; sono già impaziente di vedere e di ammirare l'uccello che parla." Quando il sultano fu giunto alla fontana dell'acqua gialla, vi tenne a lungo gli occhi fissi, perché quella offriva un meraviglioso spettacolo innalzandosi nell'aria, e ricadendo nel bacino. "Voi dite, mia bella", egli disse, parlando sempre alla principessa, "che quest'acqua non ha sorgente, né viene da alcun luogo di questi paraggi per un condotto sotterraneo? Anzi asserite che essa viene da lontano così come l'albero che canta?" "Sire", rispose la principessa, "la cosa sta appunto così come la maestà vostra afferma, e per provarvi che l'acqua non viene da nessuna parte, osservate il bacino; esso è tutto intero, sicché non può giungere né dai fianchi né dal fondo. E ciò che deve rendere l'acqua maggiormente interessante agli occhi della maestà vostra è che io ne ho gettato solo un fiasco nel bacino, ed essa è cresciuta in tanta abbondanza come ora si vede, grazie a una sua virtù particolare." Il sultano allontanandosi dal bacino, disse: "Basta così per oggi, giacché mi riprometto di ritornare qui spesso; guidatemi ora a vedere l'uccello che parla". Accostandosi al salone, il sultano vide sopra gli alberi un numero prodigioso di uccelli, che facevano echeggiare l'aria col loro canto. Domandò perché si fossero adunati là piuttosto che sugli alberi del giardino, dove non ne aveva visti né uditi cantare. "Sire", rispose la principessa, "questi uccelli vengono qui da tutte le parti per accompagnare l'uccello che parla. La maestà vostra lo vedrà in una gabbia posta sopra una finestra del salone, dove sta per entrare; e se vi fa attenzione, si accorgerà che il suo canto è molto superiore a quello di tutti gli altri uccelli, e anche dell'usignolo, che gli è di gran lunga inferiore." Il sultano entrò nel salone mentre l'uccello cantava. "Mio schiavo", disse la principessa, alzando la voce, "questi è il sultano, porgigli i tuoi omaggi." "Sia benvenuto il sultano", disse l'uccello, "il cielo lo ricolmi di prosperità, e prolunghi il numero dei suoi anni!..." Siccome il banchetto era apparecchiato vicino alla finestra dove era l'uccello, il sultano, sedendosi a tavola, disse: "Uccello, ti ringrazio del tuo complimento e ho gran piacere di salutare in te il re degli uccelli!". Poi, vedendosi davanti il piatto di cocomeri, che egli credeva ripieni secondo il solito, vi stese subito la mano, e il suo stupore fu grandissimo nel vederli ripieni di perle. "Quale novità è questa?", disse. "E a che scopo farcire un cocomero di perle? Le perle non si mangiano." Egli guardò i due principi e la principessa per chiedere loro ciò che significasse, ma l'uccello lo prevenne: "Sire, come può la maestà vostra essere tanto meravigliata per un cocomero pieno di perle, che vede con i suoi occhi, mentre con tanta facilità ha creduto che la sultana sua moglie avesse partorito un cane, un gatto e un pezzo di legno?". "L'ho creduto", ripigliò il sultano, "perché le nutrici me lo hanno assicurato." "Quelle nutrici, sire", riprese l'uccello, "erano sorelle della sultana, ma sorelle invidiose della felicità di cui l'avevate colmata a preferenza di loro e, per soddisfare la loro rabbia, hanno abusato della buona fede della maestà vostra. Confesseranno il loro delitto se le farete interrogare. I due principi e la principessa, che vedete qui, sono figli vostri, che quelle abbandonarono in balìa dell'onde, e che furono salvati dall'intendente dei vostri giardini, e da lui nutriti e allevati." Il discorso dell'uccello illuminò istantaneamente la mente del sultano. "Uccello", esclamò, "io non stento a prestar fede alla verità che mi scopri. La simpatia che mi attirava verso di loro, e l'amore che già sentivo, mi diceva anche troppo chiaramente che erano del mio sangue. Venite dunque, figli miei, venite, figlia mia, che vi abbracci, per dimostrarvi il mio amore e la mia tenerezza paterna." Si alzò e, dopo avere abbracciati i principi e la principessa, l'uno dopo l'altro, unendosi alle loro lacrime: "Questo non basta, figli miei", disse, "bisogna pure che vi abbracciate tra di voi, non già come figli dell'intendente dei miei giardini, per il quale avrò una gratitudine eterna per avervi conservati in vita, ma come figli miei, usciti dal sangue del re di Persia". Dopo che i due principi e la principessa si furono vicendevolmente abbracciati con una nuova soddisfazione, secondo i desideri del sultano, questi si mise nuovamente a tavola con loro, e cominciarono a mangiare. Terminato che ebbero egli disse: "Figli miei, voi ora mi conoscete come vostro padre; domani vi condurrò la sultana vostra madre; preparatevi a riceverla". Il sultano salì a cavallo e ritornò alla capitale. La prima cosa che fece, appena sceso a terra, entrando nel suo palazzo, fu di comandare al gran visir di dare inizio con la massima sollecitudine al processo contro le due sorelle della sultana. Queste furono prelevate dalle loro case, interrogate, separatamente, sottoposte alla tortura, messe a confronto, riconosciute colpevoli e condannate ad essere uccise e squartate; il tutto fu eseguito in meno di un ora. Il sultano Khoshr Shah, frattanto, accompagnato da tutti i signori della corte, andò a piedi fino alla porta della moschea, e dopo aver egli stesso liberata la sultana dall'angusto carcere in cui languiva e pativa da tanti anni, "Signora", disse, abbracciandola con le lacrime agli occhi, nello stato deplorevole in cui era, "vengo a chiedervi perdono della mia ingiustizia, e darvene la ricompensa che vi devo. Già ho cominciato a castigare quelle che mi avevano ingannato con una abominevole impostura, e spero che considererete completa la mia riparazione, quando vi avrò fatto conoscere due compitissimi principi e una amabile e vaga principessa, figli vostri e miei. Venite, riprendete il grado che vi appartiene, e con esso tutti gli onori che vi sono dovuti". Questa riparazione avvenne alla presenza di una numerosissima moltitudine di popolo, che in folla era accorso alla prima notizia di quanto stava per accadere, e in pochi momenti la notizia si sparse per tutta la città. Il giorno seguente di buon mattino il sultano e la sultana, che aveva mutato l'abito di castigo e di dolore in una veste magnifica, quale le conveniva, accompagnati da tutta la corte, andarono alla casa dei due principi e della principessa. Discesi a terra, il sultano presentò alla sultana i principi Bahman, Perviz e Parizade, dicendole: "Signora, questi sono i due principi vostri figli, e questa è la principessa vostra figlia; abbracciateli con la stessa tenerezza con la quale li ho io pure abbracciati: essi sono degni di me e di voi!". Furono sparse abbondanti lacrime in queste cordiali manifestazioni di affetto, soprattutto da parte della sultana per la consolazione e il giubilo di abbracciare i due principi e la principessa suoi figli, che erano stati causa di tante, lunghe e dolorose pene. I due principi, e la principessa avevano fatto preparare un magnifico banchetto per il sultano, e per tutta la corte. Tutti si misero a tavola e, dopo il banchetto, il sultano condusse la sultana nel giardino, dove le fece ammirare l'albero armonioso, e il singolare e vago effetto dell'acqua gialla. Quanto all'uccello, ella lo aveva già visto nella gabbia, e il sultano ne aveva fatto l'elogio durante il banchetto. Quando non vi fu più nulla che obbligasse il sultano a fermarsi oltre, egli risalì a cavallo; il principe Bahman lo accompagnò a destra ed il principe Perviz a sinistra; la sultana con la principessa al suo fianco andavano dietro al sultano. In quest'ordine, preceduti e accompagnati dagli ufficiali della corte, ognuno secondo il suo grado, ripresero la strada della capitale. Mentre si accostavano, il popolo si presentò in folla, con gli occhi fissi sulla sultana, prendendo parte al suo giubilo dopo un così lungo patimento e sulla principessa, accompagnandoli con le loro acclamazioni. L'attenzione di molti era pure attratta dall'uccello nella sua gabbia, che la principessa Parizade portava davanti a sé e di cui ammiravano il canto che richiamava gli altri uccelli che si trovavano sugli alberi della campagna e sui tetti delle case della città. I principi Bahman e Perviz con la principessa Parizade furono condotti finalmente nel palazzo con gran pompa, e la sera si fecero grandi luminarie e feste, tanto nel palazzo quanto nella città; e i festeggiamenti continuarono per molti e molti giorni. 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